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Archivio Ramelli - articoli di giornale L'Avvenire, 17/3/1987 In fila aspettando il perdono torna agli articoli de L'Avvenire
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Aperto il processo per
l'assassinio del giovane simpatizzante
di destra
In fila aspettando il perdono
Faccia a faccia a Milano tra la madre di
Ramelli e gli
imputati del delitto
MILANO la mano trema, la voce
svanisce. A proteggerla
ci sono l'avvocato e alcuni colleghi dell'ufficio legale che
così
uniti e decisi, in un primo momento, sembrano vere e proprie guardie
del
corpo. Stanno difendendo da curiosi, giornalisti e fotografi mamma
Anita
Ramelli mentre fa il suo ingresso nell'aula dove inizia il processo
contro
gli ex-studenti, oggi per lo più medici, accusati di aver
partecipato
all'agguato che dodici anni fa provocò la morte di suo
figlio Sergio.
Sono tutti
lì, mischiati tra
avvocati, psicologi e amici, i dieci imputati di quell'atroce omicidio.
Rispetto a quei tempi, gli "anni delle spranghe", che insanguinarono
Milano
stretta nella morsa di violenza generata dallo scontro quotidiano tra
l'estrema
sinistra (Avanguardia Operaia) e la destra, sembrano diversi. Scomparsa
la folta barba, i capelli lunghi, l'eskimo, le scarpe da tennis e
gettate
le micidiali "Hazet 36" (lunghe chiavi inglesi), oggi assomigliano a
chiunque.
E come tanti "qualunque" ieri mattina, nonostante gli arresti
domiciliari,
sono saliti sul bus o sul metrò per raggiungere non il
lavoro ma
il palazzo di giustizia e, senza alcuna scorta, entrare in aula e
aspettare
insieme agli altri quindici imputati, accusati di diversi ma
significativi
episodi di violenza politica degli anni Settanta.
Il
presidente della Corte d'assise,
Antonio Cusumano, instaura subito con loro un rapporto familiare,
amichevole.
Non potendoli distinguere tra la folla chiede collaborazione cercando
di
sdrammatizzare, di ridurre la tensione che, nonostante tutto, regna in
un'aula troppo piccola per un processo così importante.
"fate conto
di tornare a scuola" sottolinea. "Quando vi chiamo, per favore
rispondete
alzando la mano". Diligenti, ma un po' preoccupati, obbediscono.
"Antonio
Belpiede...". Una mano si
alza e una voce risponde. "Franco Castelli...". L'azione si ripete. E
così
per ventitre volte: prima il gruppo di imputati per l'omicidio, poi
quello
degli accusati per l'assalto al bar Porto di Classe (sette avventori
finiscono
all'ospedale, di cui tre in condizioni gravissime), successivamente
entrano
in scena i responsabili dell'archivio trovato in viale Bligny (schede
con
diecimila nomi e cinquemila fotografie compilate a partire dal 1970
fino
a metà dell'80) e infine gli ex studenti che avrebbero
sequestrato
un compagno di classe al liceo Parini.
Succede per
ventitrè volte
perché in due casi nessuno risponde all'appello. Massimo
Vanenti,
uno degli imputati per l'ultimo episodio, non è presente. La
stessa
cosa vale per Bernardino Pasinelli, del gruppo del bar Porto di Classe,
agli arresti domiciliari per episodi estranei al processo Ramelli ma
legati
a fatti di terrorismo firmati dalla colonna "Walter Alasia". Forse
entreranno
in aula lunedì, quando il processo riprenderà.
Appena avviata,
l'udienza viene infatti sospesa per "indisposizione del presidente".
"Devo
rientrare immediatamente a casa perché ho una nevrite
altamente
febbrile - precisa, giustificandosi, il magistrato -. Penso che i
medici
possano capire. No, non è un capriccio e sono venuto in aula
nonostante
tutto perché era importante aprire il processo. Riprenderemo
lunedì
e ci sarà udienza per almeno quattro giorni la settimana
dalle 9
alle 14".
Ad
ascoltare, mischiati tra il pubblico,
numerosi esponenti di Democrazia proletaria - il partito sorto nel 1977
dalla confluenza di Avanguardia operaia e di altre forze della sinistra
- tra cui anche il capogruppo alla Camera, Massimo Gorla. Ed
è proprio
Dp a parlare di quegli episodi di violenza come di "un drammatico
errore
umano e politico".
"Per questi
fatti - scrivono - Milano
attende uno spiraglio di verità". Loro cercano di spostare
il tiro
e intanto il "Comitato dieci anni dopo" prende le distanze. Non dal
processo,
ma dagli imputati sottolineando che in "aula non si dovrà
giudicare
la storia ma solo i fatti specifici della storia di allora, di quel
particolare
periodo". E intanto gli accusati restano soli col loro destino.
Ed ognuno
di loro ha infatti una propria
idea, una linea di difesa. Antonio Belpiede sembra quasi irritato,
ripete
di essere estraneo a fatti e se la prende coi giudici
istruttori
che non avrebbero verificato il suo alibi. Aria di sfida soffia invece
sopra Brunella Colombelli, oggi ricercatrice universitaria a Ginevra;
colei
che per settimane avrebbe tenuto sotto controllo Sergio seguendone i
movimenti,
respinge ogni accusa. "Si, ero una staffetta alle manifestazioni -
spiega
la Colombelli - ma di quella storia non so nulla".
Ne sa
invece parecchio Marco Costa,
che con Giuseppe Ferrari-Bravo sarebbe uno degli esecutori materiali
dell'omicidio
di Sergio. A lui ora tutto il resto interessa poco. "La mia speranza
è
il perdono di mamma Ramelli", ripete a chi lo avvicina. Lei non
risponde
ma ha tanti dubbi. "Devo credere? Devo perdonare - si chiede in
continuazione
- ? Non lo so, non riesco più a capire". E se ne va con le
sue guardie
del corpo improvvisate.