Archivio Ramelli - articoli di giornale Il Manifesto, 27/3/1987 Così colpii Ramelli torna agli articoli de Il Manifesto |
L'aula della corte d'assise dove si giudica l'uccisione di Sergio Ramelli ha vissuto ieri il momento più doloroso. Nel racconto delle sequenze tragiche raccontate da Marco Costa, uno dei due esecutori materiali del delitto; e nell'esibizione in aula dl due minacciose chiavi inglesi simili a quelle usate per l'aggressione al giovane fascista. E anche perché, nella ricostruzione del "pentito" è difficile riconoscersi, per chi ha militato in quegli anni.
MILANO. "Lui mi ha guardato, io l'ho guardato negli occhi, in quel momento davanti a me non c'era più un fascista, ma solo un uomo. Ho pensato alla sofferenza che stavo per dargli e volevo dire basta. Poi in me sono prevalsi il senso del dovere e l'impegno che avevo preso con gli altri compagni, e allora ho tacitato la mia coscienza e ho lasciato prevalere l'ideologia".
Marco Costa è un trentenne pallido, oggi è medico anestesista. Dodici anni fa, quando colpì con la sua chiave inglese modello "35 beta" Sergio Ramelli, era il più giovane (quasi coetaneo del giovane fascista) di quel gruppo di studenti di medicina aderenti ad Avanguardia operaia che erano alla loro prima azione impegnativa. Racconta con tono suggestivo: "Ramelli si copriva il capo con le mani e così facendo, mi offriva il volto. E io cercavo di togliergli quelle mani dalla testa, non volevo colpirlo sulla faccia per paura di deturparlo o di fargli saltare qualche dente. Gridava e cercava di scappare mentre lo colpivo, poi ha incespicato nel motorino e, mentre cadeva, l'ho colpito ancora. Gridava basta, e dall'alto, forse da una finestra, una signora gridava anche lei. Allora sono scappato".
Il racconto prosegue con particolari già noti, il ritorno del gruppo all'università, dove le chiavi inglesi vengono riposte in una borsa. "Quella di
Costantini (un militante morto in seguito ad un incidente d'auto ndr) - dice Costa - aveva una macchiolina di sangue, allora io ho suggerito di pulirle tutte". Poi c'è il giorno dopo, quello in cui si apprende dai giornali che Sergio Ramelli è entrato in quel coma da cui non uscirà più. C'è il dolore, che porterà molti militanti ad abbandonare la politica. Ma non Marco Costa, che ritroviamo, esattamente un anno dopo, come partecipante all'assalto del bar di largo Porto di classe. E il cui percorso politico è costellato, negli anni seguenti, da schedature e pedinamenti di fascisti, come risulta dall'archivio ritrovato nell'abbaino di viale Bligny. Su quelle schede, preparate in anni successivi a quelli del "rimorso", compare spesso la grafia di Costa. E lui non nega, anche se spiega che la raccolta di quel materiale era finalizzata, nelle sue intenzioni, a "dimostrare che i fascisti non erano quello che sembravano".
È poco credibile, e mostra di non credergli li presidente Cusumano, che gli contesta "evidentemente lei era ancora dentro a quel tipo di logica" anche molti anni dopo l'uccisione di Ramelli. E, a rigor di logica, poca credibilità dovrebbe esser data a Costa quando dichiara che Antonio Belpiede (che si dichiara estraneo al fatto) se anche non c'era, certamente "sapeva" che era in preparazione l'aggressione a Ramelli. E non si vede perché dovrebbe dire la verità questo imputato cosi ricco di contraddizioni, quando sostiene con sicurezza che fu Brunella Colombelli a mostrargli il luogo dove il giovane fascista agganciava il motorino. Un ricordo, quello che incrimina l'ex studentessa di biologia, riemerso nella memoria di Costa in modo tardivo (dopo ben tre interrogatori) e del tutto soggettivo. Nessun altro computato, infatti, accusa la ricercatrice dell'università di Ginevra, e lo stesso Costa, dopo aver escluso che la ragazza abbia mai partecipato alle riunioni preparatorie sull'aggressione, la qualifica come "una delle staffette più importanti" solo perché era amica di Grassi, dirigente del servizio d'ordine di città studi. Ma Grassi è morto.