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Il Messaggero, 27/3/1987

Uccisi Ramelli tremando

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Milano
Dodici anni dopo, il processo per l'assassinio del giovane neofascista
Dieci imputati, ex militanti di Avanguardia operaia "Prigionieri di un orrore"


Uccisi Ramelli tremando


MILANO - "Quando l'ho visto arrivare, mi sono sentito tremare le gambe. Davanti non avevo un fascista, avevo un ragazzo come me, Ramelli. Qui comincia la mia colpa. Avrei potuto andarmene. Potevo dire basta. invece sono rimasto. In quel momento ho messo in disparte la coscienza per la mia ideologia. E l'ho colpito. Lui cercava di scappare e io lo colpisco. Dove non io so neppure". E' il momento culminante del racconto di Marco Costa, uno degli accusati (dieci in tutto) dell'omicidio volontario di Sergio Ramelli, il giovane di destra "sprangato" il 13 marzo 1975 e morto dopo una lunga agonia. Uno dei casi più drammatici di quegli anni dove lo scontro fra gruppi di opposte tendenze politiche era all'ordine del giorno. "Quando, il giorno dopo, comprai il giornale ero convinto di leggere del solito pestaggio fra estremisti. Invece c'erano grossi titoli su Ramelli in coma" ha raccontato, due giorni fa. Luigi Montinari, un altro degli imputati, uno di quelli che doveva coprire le fuga di chi andava materialmente a "sprangare". Già, quello non fu un semplice pestaggio, si trasformò in omicidio ed ora si trovano a renderne conto in corte d'Assise dieci ex studenti, diventati nel frattempo medici, insegnanti, biologi.
    Sono passati dodici anni da quel giorno ma il "caso Ramelli" continua a far discutere. Il lavoro dei giudici istruttori Grigo e Salvini ha consentito di fare luce su quell'episodio e su altri (di minore entità ma entrati a far parte dello stesso processo). Ramelli fu atteso dove abitualmente posteggiava il motorino che usava per il tragitto scuola casa e viceversa. Fu aggredito con chiavi inglesi, lasciato in fin di vita, con la testa fracassata. Solo due anni fa, riannodando il filo di indagini e dichiarazioni prese qua e là, si delinearono volti e nomi di chi aveva partecipato, più o meno direttamente. all'azione. I primi arresti destarono un certo clamore proprio perché gli esponenti di "Avanguardia operaia" di allora erano diventati stimati professionisti. Montinari, ad esempio, ha 40 anni e fa il dentista, Marco Costa, 32 anni, é medico, specialista in anestesia. Dopo un periodo in carcere, tutti hanno ottenuto gli arresti domiciliari e questo consente loro di svolgere, almeno parzialmente, l'attività professionale.
    Al momento dell'arresto molti tentarono di negare o di "non ricordare". Ora la maggior parte è qui, in aula, a spiegare che si sentono "prigionieri di un orrore". "Da quel giorno - ha raccontato ieri Costa - non sono mai più riuscito a gridare "morte ai fasci", come avevo fatto tante volte prima di quell'episodio. Cominciò in me una fuga da qualcosa, una fuga durata tanti anni e durante la quale Ramelli mi tornava sempre in mente, giorno e notte". Il presidente della Corte. Cusumano, non ha però mancato di far notare che, pur prigionieri di quell'orrore, nessuno pensò di liberarti del peso, costituendosi. Anzi, qualcuno continuò, senza troppi problemi nella sua attività, diciamo così, "politica". Adesso Costa dice di averne "piene le tasche di violenza". Adesso chiedono a, giudici di "essere aiutati a capire perché tanta gente che odiava la violenza, ha finito per uccidere". Mentre, è ovvio, la madre di Sergio Ramelli chiede ancora di capire perché divergenze politiche possono portare ad uccidere. La famiglia Ramelli è parte civile, anche se un gruppo di difensori ha depositato 200 milioni presso un notaio, prima dell'inizio del processo, come risarcimento. La madre del giovane estremista di destra non ha voluto ancora prendere in considerazione l'eventualità di accettarli.
Intanto il dibattimento scorre alla ricerca di una verità completa. Costa ha ammesso ieri tutte le sue responsabilità nell'episodio Ramelli, ha sempre parlato in prima persona anche se per i magistrati inquirenti a colpire sarebbero stati in due, lui e Giuseppe Ferrari Bravo. Ha raccontato che fu Roberto Grassi (responsabile del servizio d'ordine di "Avanguardia operaia", morto suicida qualche anno fa) a mostrargli la foto del "fascista" da picchiare con quelle chiavi inglesi che, a missione compiuta, vennero riportate allo stesso Grassi, nell'aula di biologia della facoltà di Medicina. Ieri, sul banco dei giudici, è comparsa una grossa chiave inglese, uno dei corpi di reato. Costa si è tirato indietro, non ha voluto nemmeno toccarla, anche se poi ha spiegato che non era a sua: "La mia era più corta e più leggera".

di Gabriele Tacchini


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