Archivio Sergio Ramelli

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Il Sabato,4-10/4/1987

Perché proprio Ramelli? Nessuno...

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Le deposizioni degli imputati. Cosa resta di oscuro

Perché proprio Ramelli? Nessuno rispose 

C'erano i mandanti. Tutti lo lasciano intendere. Ma tutti preferiscono passare oltre. E chissà se quei veli cadranno mai

"Ramelli si copri la testa con le mani, offrendomi la faccia senza difese. Cercai di toglierle dal viso, quelle mani: avevo paura di sfigurarlo, di rompergli un dente. Ci riuscii e lo colpii al capo. Non so con quale forza, ma non si stordì, continuò ad urlare. Cercò di scappare, ma inciampò nel motorino e cadde, e così anch'io sopra di lui, carponi. Lo colpii ancora; non so dove, al corpo, al braccio forse....".
    È il 26 marzo. Si celebra il processo per l'assassinio di Sergio Ramelli. Le deposizioni fanno venire la pelle di cappone. Dopo dodici anni, quell'assurdo lontano pomeriggio di violenza è ancora davanti agli occhi. Milano ripiomba in un incubo che aveva troppo presto rimosso.
    Nell'aula del tribunale voci monotone alcune, altre drammatiche, altre ancora più tecniche, raccontano la morte di un giovane di sedici anni. Alla sbarra facce di uomini oggi trentenni; uomini affermati, "scampati" per una decina di anni alla legge, ma soprattutto scampati dal doversi chiedere e dal dover spiegare, perché. Sono facce stanche, tese; alcune non dicono nulla, altre dicono tutto. Una decina di imputati, per un assassinio che ha centinaia di colpevoli. Ma tutti gli altri non ci sono.
    I colpevoli non sono soltanto coloro che, materialmente, il 13 marzo 1975, andavano "a menare il fascio". C'è una colpevolezza che coinvolge tutti coloro che, in un modo o nell'altro, resero possibile quell'assassinio. Tutti coloro cioè che disegnarono il clima di cui Ramelli divenne la vittima. Il perché "teorico" lo spiegano tutti. Il clima esasperato, la schiavitù ideologica dell'organizzazione, il nemico di classe, l'autodifesa, parole che puzzano di vecchio.
Eppure dopo dodici anni, sono queste le uniche parole che cercano di spiegare. Come è possibile spiegare, prima di tutto a se stessi, come è possibile che persone estranee alla violenza si siano trovate in dieci sotto la casa di uno sconosciuto e l'abbino percosso al capo fino a sfondargli il cranio? E perché un anno dopo alcuni di essi si sono ritrovati a distruggere un bar e a sprangare chiunque gli capitasse a tiro?
    La morte di Ramelli non ferma nessuno. I giorni che seguono sono quelli in cui Milano conosce la violenza quotidiana. La morte di Ramelli, invece che ram presentare un passo da non oltrepassare, aumenta l'odio. Il 28 aprile, un giorno prima della morte dello studente, un gruppo di ragazzi si staccò da un corteo proprio nei pressi della casa di Ramelli. Sui muro appiccò un manifesto in cui si intimava ai fratello di sparire entro quarantotto ore, ricordandogli quanto era toccato a Sergio. La campagna dell'antifascismo militante, lanciata da Avanguardia Operaia, prosegue. La struttura militare si divide per quartieri, per zone, per scuole. Intimidazioni, processi, "avvisi di reato", pestaggi. Nessuno si tira indietro. Un rifiuto significava autoescludersi dal servizio d'ordine, la struttura d'elite di Ao e quindi in qualche modo, tradire i compagni. Quando tocca a Ramelli, nessuno fra coloro che erano stati scelti per l'azione, chiede un perché. Partono tutti con una chiave inglese nascosta sotto il maglione e una fotografia della vittima. Sì, perché Ramelli era talmente sconosciuto a tutti loro, che dovettero procurarsi una foto per non correre il pericolo di sbagliare persona.
E quella foto ritraeva un ragazzo impaurito mentre veniva costretto a cancellare scritte fasciste sui muri del Molinari. Un perché non se lo chiese nessuno neppure dopo la morte, nelle tre o più riunioni che vi furono. L'unico problema diventò fare i conti con la propria coscienza. In qualche modo dimenticare. Per l'organizzazione, ancora meno. Si trattava soltanto di gestire politicamente l'operazione e più tardi mettervi sopra una cappa. Nonostante le crisi personali profonde e autentiche che assalirono i responsabili, nessuno pensò di costituirsi, né collettivamente, né personalmente. L'assoluta omertà era una garanzia più che sufficiente per poter tornare nell'anonimato. Ma non solo, costituirsi avrebbe recato un danno enorme per un'organizzazione come Avanguardia operaia, in procinto di presentarsi alle elezioni amministrative del giugno di quell'anno.
    Un anno di morte. Sedici aprile, Antonio Braggion, uno studente di destra aggredito con chiavi inglesi, reagisce sparando e ammazza Claudio Varalli. Diciassette aprile; i servizi d'ordine iniziano un raid contro obiettivi diversi. Davanti alla sede dell'Msi in via Mancini, un camion dei carabinieri travolge e ammazza Giannino Zibecchi.                 Millenovecentosettantacinque, Milano è sconvolta. Non c'è giorno che le piazze non si trasformino in campi di battaglia. I morti incominciano a pesare. Ma Ramelli no, Anzi i fatti che si susseguono incalzanti, ammetteranno in molti, non faranno che distogliere l'attenzione dalla morte dello studente. Il meccanismo della solidarietà militante farà il resto.
Il Quotidiano dei lavoratori, che aveva relegato in un trafiletto l'aggressione a Ramelli, in cui lo accusava di misteriosi attentati, non dà nessuna notizia il giorno della morte. Ne parlerà tempo dopo, con articoli nei quali autorevoli esponenti negheranno l'esistenza di una struttura finalizzata alla schedatura e all'aggressione degli avversari. Ma un anno dopo, il nome di Ramelli ricompare. Il due ottobre 1976, viene attaccato il Circolo "Sergio Ramelli". Alcuni degli assalitori dopo averla staccata dal muro sputano sopra la foto dello studente.
    L'attività antifascista prosegue senza sosta. Moltissimi vengono identificati durante raid nelle scuole, interrogati e costretti a fare i nomi degli amici fascisti. Molti studenti vengono fermati per accertamenti, altri perquisiti per strada. Compaiono le fotografie dei funerali di Ramelli, compare una cartelletta con l'intestazione: "Piangono per la morte di un fascista elenco". Dentro, le fotocopie dei necrologi del Corriere della Sera per la morte di un esponente di destra e l'elenco dei nomi di coloro che ricordavano l'anniversario della morte di Ramelli e Pedenovi.
    L'omertà ha vinto. Quel che è accaduto dopo lo sanno tutti. Basta guardare alle storie personali di coloro che parteciparono all'assassinio di Ramelli. Quasi tutti si allontanano dall'attività politica. Qualcuno sceglie lo studio, si laurea, inizia una carriera. Alcuni continuano a militare per anni in Democrazia proletaria. Altri ancora scelgono vie 'alternative'. Ma c'è anche chi non regge il peso del passato e si ammazza.
    Le storie del millenovecentosettantacinque sono definitivamente dimenticate. Risaltano fuori come fantasmi dieci anni dopo, a schiacciare la coscienza di molti. Le indagini, gli arresti, il processo. Gli "esecutori" vengono lasciati soli. Soli a sopportare un peso che non è solo loro. Dopo l'arresto, mentre rendono testimonianza davanti ai giudici, in piazza Duomo illustri deputati di Democrazia proletaria gridano alla persecuzione. Chi è dentro ha finalmente l'occasione di riscattarsi, di liberarsi di un peso.
    Chi è fuori ha ancora lo stesso problema di sempre: rimuovere, giustificare. Nessuno riesce ancora però a spiegare perché. Come nessuno dice cosa significa che "l'ordine di aggredire Ramelli, arrivò dall'alto". L'ultimo atto, è storia di questi giorni. Il processo, le testimonianze, il dramma personale di chi deve spiegare. La sensazione però è che la strategia dell'omertà abbia vinto davvero.
    Massimo Romanò


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