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Il Corriere della Sera, 25/3/1987

"Ramelli non doveva morire"

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Al processo per l'omicidio del giovane neofascista ha deposto Luigi Montanari
"Ramelli non doveva morire"
Il piano della spedizione punitiva nel racconto di un imputato

Milano - Seduto all'estremità della panca,  non riesce dissimulare una certa inquietudine. Intreccia le mani, si torce le dita, si tocca i capelli, e con la destra sfiora il fermaglio della cravatta. Sarà lui il primo imputato a essere interrogato, a parlare di quegli anni roventi, di un agguato e di una morte. La morte dì Sergio Ramelli, ragazzo di diciotto anni, "fascio" del Fronte della Gioventù. Il presidente della Corte, Cusumano, chiama "Montanari". E Luigi Montinari, oggi un medico distinto ed elegante, fa pochi passi e si accomoda davanti al microfono. La voce è ferma, e i ricordi non sono offuscati. Racconta con proprietà di linguaggio. Sopravvive qualche rara espressione del lessico di una sinistra di altra epoca. Per un attimo, un attimo soltanto, s'interrompe. "Sono emozionato, non ho l'abitudine di trovarmi qua". Il presidente dice: "È  comprensibile". Tornano in aula le storie di una stagione cattiva, i flash di una iniziazione, di una militanza  di un 'dopo'. "Nel '71 mio padre gestiva un bar a Città Studi. in piazza Ascoli. Cominciai a frequentare militanti di Avanguardia Operaia e del Ms. Prima il Club, che era una struttura introduttiva, di base....." Il clima di allora, i fuochi e le manifestazioni di piazza. "C'erano problemi internazionali, problemi interni. Non dimentichiamo altre situazioni: lo studio, il lavoro, la fame di case, il nostro domani. Piazza Fontana era ancora presente e c'erano stati altri episodi di stragismo". Una pausa, come a sondare la memoria. Riprende: "Noi consideravamo, ed io consideravo, importante un impegno politico quotidiano. Il nostro antifascismo non era solamente picchiare il nemico, come urlavano certi titoli dei giornali: ''Gli sprangatori'', ''I pestatori". No, c'era un'analisi, c'ero il desiderio di capire, la volontà di fare e di combattere le ingiustizie".
    Un momento preciso lo induce a una decisione e segna una svolta. "Nella primavera del '73, il giorno in cui fu assassinato dai neri l'agente Marino, ero in piazza Ascoli con una ragazza. Una squadraccia è in marcia con intenzioni evidenti. Monto in macchina, mi allontano, e rammento che un sasso mandò in frantumi un vetro della vettura". Montinari chiede di entrare a far parte del servizio d'ordine. 'Pensai che fosse una cosa positiva, se il termine 'positivo' può essere usato. La voce si fa quasi cavernosa: "Oggi non mi sentirei di fare nulla contro un mio simile. Per capire, bisogna riandare al clima di allora".
    Nasce la squadra di medicina. Ogni facoltà ha una squadra, e il responsabile del servizio d'ordine di Città Studi è Roberto Grassi. Grassi si toglierà la vita, schiacciato dal peso del rimorso.
    Ci avviciniamo a quel tragico 13 marzo del '75. Il presidente chiede: "Perché Ramelli?". Un momento di silenzio, di silenzio profondo.
"Una risposta esatta non c'è. Io non lo conoscevo, non lo avevo mai visto. Era un avversario politico, con una sua connotazione, e rappresentava una realtà che noi combattevamo". La squadra di medicina, prima dell'agguato a Ramelli, non aveva partecipato 'ad alcuna azione di antifascismo militante'.
    Inizi di marzo. "C'e una riunione di cellula. Piomba Grassi e dice che dobbiamo essere disponibili il 13 per un'azione. C'è Costa, mi pare Colosio, gli altri non ricordo... La mattina del 13 Montinari è in ospedale a Vialba, e frequenta le lezioni di pediatria. "Ero un po' indietro con gli esami. Dovevo darci dentro per laurearmi e per evitare che mio padre avesse da ridire". Alle 11-11.30 sale a bordo della '500' e si dirige a Città Studi. Dritto nell'auletta di bìologia, dove trova Grassi. "Gli altri sono già partiti". Grassi mi dice 'Sbrigati". Mi dà una chiave inglese, io la nascondo fra il soprabito e il pullover. Raggiungo compagni. Strada facendo mi comunicano, non so più chi, che era un'azione contro uno di destra".
    Lui, Castelli e Colosio si fermano davanti a un negozio, sulla sinistra dì via Paladini. Costa e Ferrari Bravo entrano nella strada. Scazza e Costantino sono verso il centro". Il compito di Montinari e di altri è di copertura, per evitare che possano esserci ritorsioni nei confronti di Costa e di Ferrari Bravo. "Non ho visto Ramelli in motorino. Abbiamo aspettato dieci minuti, un quarto d'ora, guardando le vetrine del negozio. Poi, in fondo a via Paladini, ho visto Costa correre. Significava: andiamo via". Percorrono via Arnò, e si ritrovano nell'auletta di biologia. Là riconsegnano le chiavi inglesi.
    La mattina dopo, Montinari compra il giornale. "Cercavo un trafiletto con un titolo tipo: 'Giovane neofascista aggredito'. Ramelli, invece, era in coma. Non doveva essere così. Usando un gergo medico, l'aggressione doveva determinare una prognosi di qualche giorno". Il commando si incontra due volte: in casa di Montanari e in un locale tenuto da Cremonesi
    "Avevamo vergogna e lo ripeterò sempre. Non è un atteggiamento strumentale per il processo". Montanari ha continuato per poco tempo la sua militanza. "Dal sevizio d'ordine mi sono defilato". Con i 'soldati' della spedizione punitiva ho perduto volutamente i contatti". Li ha rivisti dieci anni più tardi, quando la verità è venuta alla luce. "Incontrai per caso Marco Costa. Gli chiesi: 'Come stai?'. Il riferimento era tacito, non c'era bisogno di parole. Mi rispose: 'Malissimo'".
    Il presidente dice: "Le chiavi inglesi potevano smontare un transatlantico. Bastava che cadesse per arrecare un danno enorme. Voi, poi, eravate studenti di medicina...". L'imputato risponde con voce ormai stanca: "Non avere valutato le conseguenze dell'impatto fisico, fu il nostro errore. Di chiavi inglesi non avevamo esperienza".

Fabio Felicetti
 
    
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