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Il Giorno, 28/3/1987

"Ricordo l'ansia e la paura"

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"Ricordo l'ansia e la paura"

Giuseppe Ferrari Bravo era arrivato ad Avanguardia operaia dopo una militanza nei gruppi giovanili cattolici - "Quando partecipai all'assalto ero entrato nel servizio d'ordine da due mesi"


"Ci interruppero le urla di una donna: 'Cosa fate, cosa fate', gridava. Costa mi disse: vieni via, scappiamo. Provai ansia. Attraversai la strada quasi senza guardare, credo di aver avuto la chiave inglese ancora in mano. Mi accorsi che un uomo mi osservava, allora la nascosi". Sembra non finire mai la ricostruzione dell'agguato a Ramelli. Per la terza volta nell'aula della seconda Corte d'assise cala un silenzio totale, opprimente. Dopo il distaccato Luigi Montinari, dopo il lucido e agghiacciante Marco Costa, tocca adesso al timido Giuseppe 'Aldo' Ferrari Bravo, il medico che in istruttoria si rifiutò di ammettere le proprie colpe.
L'altro 'autore materiale' racconta davanti ai giudici un omicidio che nella rievocazione appare sempre più assurdo e inutile. "In seguito a quel fatto passai da una militanza allegra e piena di vita ad una militanza cupa. Mi resi conto di essermi bruciato le mani nel giro di poche settimane". 'Aldo', così lo chiamavano i compagni, era entrato nel servizio d'ordine di Avanguardia operaia appena due mesi prima.
A differenza del suo compagno precedente, così preciso nel descrivere i fatti, nei riandare con la memoria alle immagini di quel 13 marzo 1975, Ferrari Bravo i preferisce parlare delle sue emozioni. Rivive l'agguato come se si trovasse ad una seduta psicanalitica, ricorda soprattutto le sue sensazioni, non la realtà dei fatti. Nella sua mente, la sequenza di Ramelli che cade colpito dalle chiavi inglesi non esiste, è confusa.
Ricorda le grida del giovane, della donna affacciata alla finestra che diceva di smettere: gli sembra di non aver mai guardato cosa stava succedendo. "Con la coda dell'occhio mi accorsi dell'arrivo di un motorino, anzi forse vidi un ragazzo che semplicemente lo appoggiava ai muro. Costa mi disse: ecco, andiamo. Ma ho la sensazione precisa e netta di essere rimasto indietro, ero in ritardo. Il ragazzo si sbilanciò, forse per un colpo di chiave inglese. Non vidi dove Costa lo percosse. Io credo di averlo colpito solo una volta, forse due, ma non in testa. Tutto durò, mi sembra, pochissimi secondi".
Si ferma un attimo, soppesa le parole. Tra una frase e l'altra ci sono lunghe pause, le immagini si accavallano. Quanta differenza rispetto alla speditezza confessionale di Costa. Come per gli altri che lo hanno preceduto, il racconto prosegue con la paura del giorno dopo, con lo stupore di trovare sui giornali titoli a sei colonne che parlavano di un giovane in coma all'ospedale.
"Non mi rendevo minimamente conto di quello che era successo. Rileggendo il giornale fui preso dal panico, uscii di casa per rincontrare i compagni. In un'aula di fisica Marco Cavallari mi chiese cosa era successo, lui non aveva partecipato all'azione. Ci tranquillizzammo pensando che forse i quotidiani avevano esagerato. Non ci pensammo più. Pochi giorni prima della morte di Ramelli ci ritrovammo, sempre gli stessi, in un locale affittato da Cremonese. Qualcuno disse che il ragazzo mostrava segni di miglioramento. Ma la prognosi era ancora riservata. Mi illusi. Fu poi Montinari a dirmi che Ramelli era morto. Mi ricordo ancora che era una giornata di sole bellissimo, non avremmo mai voluto che succedesse una cosa del genere".
Impegno, senso del dovere, militanza: anche per Ferrari Bravo sono concetti che tornano spesso. Retaggi, si giustifica lui, di un 'certo tipo di cultura cattolica', ricevuta quando ancora s'impegnava nei campi di lavoro francesi dei gruppi 'Emmaus'. Cultura che presto si trasformò nell'ideologia di sinistra che lo portò ad entrare in Avanguardia operaia. "Per toccare così i nodi fondamentali delle ingiustizie nella società".
Impegno che si protrasse anche l'anno dopo, quando ancora assieme a Costa e a Colosio partecipò all'assalto del bar in largo Porto di Classe. Eppure, termina Ferrari Bravo, "quell'estate del 1975, ancora sconvolto, la passai chiuso in casa a leggere libri ideologici sul socialismo, per trovare una spiegazione a quanto era successo. Non ci riuscii".

Paolo Colonnello

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