Archivio Ramelli - articoli di giornale Il Giorno, 28/3/1987 Quella chiave inglese torna agli articoli de Il Giorno |
Rubrica Lettere al direttore
Milano
Gentile direttore,
le confesso che sono rimasto assai Impressionato e turbato dalla cronaca, apparsa sul nostro giornale, del processo Ramelli a Milano. Già la fotografia, con quella tragica chiave inglese simbolo di un passato di odio feroce e di violenza assassina, ha suscitato in me ricordi angosciosi ed evocato antiche ossessioni di quei primi anni Settanta che sono stati la introduzione alla stagione del piombo e della disumanità più barbara. Ma poi la interessante cronaca di Marinella Rossi mi ha fatto rabbrividire e pensare. Anzitutto (e anche qui la fotografia aiutava alla comprensione) c'era quel dottor Marco Costa che nel 1975
ha sprangato e ucciso Ramelli, con buone probabilità di non venire mai smascherato. Alle apparenze, come appunto mostra la foto, una persona seria, anonima, borghese, senza caratteristiche o abbigliamenti vistosi, uno che se lo incontriamo per la strada non ci fa nessuna impressione. Non, per intenderci, un Morucci o un Prospero Gallinari o un Curcio. Proprio un professionista come tanti, una figura grigia.
Ma poi sono rimasto stralunato, e colpito nella mia umanità, dalle parole, credo sincere e commosse, dell'imputato.
Quando egli si è trovato di fronte quel povero ragazzo del Ramelli, colpevole solo di essere fascista e cioè di pensarla diversamente, lui per un momento ha sentito prevalere in sè il sentimento della pietà. Non avrebbe voluto ucciderlo, perché ha capito di avere davanti un ragazzo come lui, un italiano come lui, forse un fanatico della politica come lui.
Ma poi, dice il Costa, l'ideologia mi ha travolto, avevo promesso di uccidere e l'ho voluto fare per fedeltà alla causa. Terribile. E ancor più terribile il particolare che neanche Dostoevsky avrebbe immaginato. Il Ramelli si copriva la testa e mostrava invece il volto al suo aggressore. E allora Costa gli ha tolto mani dal capo e lo ha colpito là. Non voleva colpirlo al viso perché aveva paura di sfregiarlo o di fargli saltare i denti, e questo era troppo brutto da fare a un coetaneo, a un invasato della politica come lui stesso. E allora lo ha colpito alla testa perché quello invece lo poteva fare, perché il problema era uccidere l'avversario per l'ideologia, per il trionfo dell'idea. Non è tragico e angoscioso tutto questo, direttore? Come commento, lei che è sempre così equilibrato e attento?
RINALDO MONTALBANO
Caro amico, sono rimasto inorridito anch'io nel leggere quella cronaca terribile, e ho fatto le stesse sue considerazioni faticando a riconoscere nel medico contrito e sofferente di oggi, in quell'uomo grigio e normale che Lei descrive così bene, il furibondo sprangatore del 1975, il giovane fanatico che non ha esitato a uccidere un ragazzo della sua età e di convinzioni opposte alle sue ma che del pari mostravano un desiderio furioso, anche se sbagliato, di aggredire la vita e di rivoluzionare la società.
Ma mi consenta una riflessione più ottimista e distesa. Dalle cronache di quel processo mi sembra che chi ha ucciso e chi ha subito la violenza, che i giornali e l'opinione pubblica mostrino ora di avere completamente superato quella fase angosciosa della nostra storia. Infatti, lo stesso dottor Costa e il commando di giovani medici che tredici anni fa organizzò l'assalto a Ramelli e al bar milanese di largo Porto di Classe, oggi non sembrano dare lo stesso valore alla parola 'ideologia'. Per ideologia, sembrano dire sia gli imputati sia i loro avversari, oggi non si uccide, non si potrebbe uccidere. Chi uccide per ideologia, a freddo, uccide non solo l'avversario ma anche l'umanità che ha in se stesso. L'uccisione per ideologia è quella che nella storia s'identifica con le Crociate, con l'inquisizione, con il fascismo e il nazismo, con i processi stalinisti. Tutto questo - io leggo così la morale del processo Ramelli - rimane legato alla tragica logica e alla tragica atmosfera degli anni di piombo. 0ggi siamo tornati invece ai tempi di un'umanità più riflessiva e più piena. Oggi, se un ragazzo è fascista, il suo avversario può cercare di contrastarlo con le armi della dialettica e della persuasione, o magari con il disprezzo e il distacco; ma mai con la chiave inglese, che è un simbolo di violenza e di pazza ferocia, forse più ancora del mitra o della pistola. Purtroppo abbiamo dovuto passare attraverso bagni di sangue, attraverso i delitti Moro e Bachelet e Guido Rossa e Varisco e
Giorgieri, perchè giovani e vecchi capissero che per l'ideologia non si può, non si deve mai uccidere.
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