Archivio Ramelli - articoli di giornale La Repubblica, 25/4/1987 Il mattino di marzo quando... |
Processo Ramelli, testimonia il medico Luigi Molinari
"Il mattino di marzo quando uccidemmo Sergio il fascista"
MILANO - "Ramelli era un ragazzo... non lo conoscevo,
ma era uno del Fronte della gioventù. Un avversario, in quel
periodo, uno che rappresentava quello contro cui ci battevamo..".
Luigi Montinari si stropiccia gli
occhi con le dita e poi guarda dritto in faccia il presidente Cusumano
dodici anni sono passati dal quel giorno di marzo del 75, quando il diciottenne
"fascista" Sergio Ramelli fu abbattuto sotto casa a colpi di spranga da
un commando di Avanguardia operaia, e tocca per primo a questo medico dentista
dai folti baffi neri, in giacca e cravatta come tutti gli altri imputati,
rievocare quel periodo di violenza cieca e di passioni politiche spinte
all'estremo.
Reo confesso del proprio ruolo di
'copertura' all'interno del commando assassino, Luigi Montinari nell'aula
di corte d'Assise ieri mattina non ha cercato giustificazioni facili al
comportamento proprio e dei compagni. Ha rifiutato con fastidio di accodarsi
ad una battuta di un avvocato difensore ("certo, loro usavano le spranghe,
ma gli altri avevano coltelli e pistole"), replicando però seccamente
anche al legale della famiglia Ramelli, segretario provinciale del Msi:
"Per sua esperienza di quel periodo, l'avvocato La Russa sa benissimo cosa
fossero i cucchini (i commandos che andavano a picchiare sotto casa gli
avversari politici, n.d.r.) sia da parte dei compagni che dei fascisti".
Montinari ha ricostruito l'inizio
della propria militanza politica con pochi tratti: "Mio padre gestiva un
bar a Città Studi, dove veniva gente di Lotta continua, Movimento
studentesco, Avanguardia operaia e altri gruppi. Un po' alla volta mi avvicinai
ad Ao. C'era una spinta emotiva all'impegno politico: da una parte la situazione
internazionale, dall'altra la nostra esperienza personale all'università.
C'era stata piazza Fontana, la strategia dello stragismo, che ci portò
a considerare importante l'impegno antifascista". In che cosa consistesse
questo antifascismo, a parte le botte per le strade, Montinani non è
però riuscito a spiegarlo: "Era fare chiarezza su tutta una serie
di cose".
A farlo decidere di entrare nel servizio
d'ordine, è un fatto personale: un giorno un gruppo di destra gli
sfasciò con una sassata un finestrino dell'auto, vicino al bar del
padre. Responsabile del servizio d'ordine a Città Studi era Roberto
Grassi, morto in seguito suicida dopo un lungo periodo di sbando e di eroina.
"Qualche giorno prima del 13 marzo - ha raccontato Montinari - dopo una
riunione di cellula di Ao, Grassi disse a noi del servizio d'ordine di
tenerci disponibili per il 13 senza spiegare meglio le ragioni. Era un
periodo importante per i miei studi, ma comunque il 13 marzo mi allontanai
dalle lezioni di pediatria che seguivo all'ospedale di Vialba per raggiungere
il luogo dell' appuntamento: l'auletta di biologia a medicina. Arrivai
in ritardo, e ci trovai solo Grassi. Mi disse di sbrigarmi, che gli altri
si erano già avviati, e mi diede una chiave inglese. La misi tra
il pullover e il paltò e mi affrettai fuori dell'università".
In quel momento Montinari non sapeva
cosa avrebbe fatto: "Genericamente mi avevano detto che si faceva un'azione
contro uno di destra. Il mio compito era quello di fermarmi davanti a un
negozio di confezioni con altri due, Castelli e Colosio. Mentre Costa e
Ferrari Bravo entravano nella via dove abitava Ramelli, Scazza e Costantini
si piazzarono verso il centro della strada.
Siamo stati lì dieci minuti,
un quarto d'ora. Dovevamo evitare possibili ritorsioni cono Costa e Ferrari
Bravo. Ramelli non l'ho proprio visto, forse non ne sapevo neanche il nome.
Guardavamo le vetrine, quando vidi arrivare Costa di corsa: era l'inizio
della ritirata. Scappammo tutti, tornando nell'auletta di biologia. Riconsegnai
la chiave inglese a Grassi e me ne andai a casa mia".
L'azione punitiva, l'agguato omicida
nel racconto di Montinari assumono una valenza astratta: una commissione
qualsiasi, qualcosa da fare per dovere ideologico. "La mattina dopo comprai
il giornale, cercavo un trafiletto del tenore 'giovane neofascista aggredito'.
E invece si parlava di questo ragazzo in coma all'ospedale. Non era quello
che volevamo: in termini medici, si doveva determinare una "prognosi di
qualche giorno". Ma le cose erano andate ben diversamente. Mi precipitai
all' università: ero spaventato, preoccupato, arrivai a proporre
lo scioglimento della squadra di medicina. Ma Grassi mi disse di attendere
gli eventi".
Delle minacce vigliacche alla famiglia
Ramelli anche durante il coma di Sergio, durato 47 giorni, degli squallidi
episodi di sciacallaggio di quei giorni senza pietà, Montinari ha
detto di non saper nulla.
"Ho una totale mancanza di ricordi.
Ho continuato per qualche mese a militare in Ao defilandomi man mano dal
servizio d' ordine. Con gli altri ci siamo riuniti un paio di volte, poi
basta. In seguito ho incontrato Costa, per caso. Gli ho chiesto come stai?
Male, mi ha risposto, e non cera bisogno di chiedere perché". Del
ruolo di Brunella Colombelli ("so solo che era certamente una 'staffetta'")
e di Antonio Belpiede, gli unici imputati che rifiutano ogni addebito,
Montinari non ha saputo dare ragguagli precisi.