Archivio Sergio Ramelli

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Il Secolo d'Italia, 31/3/1987

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Una deposizione contraddistinta da molti "non so" e "non ricordo"

Claudio Colosio, "burocrate della spranga" ricostruisce in aula l'agguato a  Ramelli

Anche Giuseppe Ferrari Bravo ha completato in maniera molto vaga la sua deposizione - Nessuno ricorda chi fu a dare l'ordine di aggredire il giovane di destra - Entrambi gli imputati hanno rievocato il clima politico di quegli anni

(Dal nostro inviato)

MILANO - "C'è da dargli una passata, una cosa tranquilla": cosi, mentre la foto di Sergio Ramelli passa di mano in mano, Roberto Grassi spiega ai compagni del gruppo di medicina l'azione in programma per la mattina del 13 marzo 1975. Che la cosa sia "tranquilla", peraltro è più che scontato: in dieci contro uno c'è poco da preoccuparsi. E nella Milano degli anni '70 anche la polizia e un rischio relativo, tanto è vero che il commando, compiuta l'azione, se ne va accelerando appena il passo per arrivare "solo un po' trafelato" all'auletta universitaria che funziona da base operativa.
A raccontare la sua versione dell'agguato allo studente del F.d.G è stato ieri Claudio Colosio. Barba curata, vestito blu, incravattato come è in prammatica per il "serio professìonista" di cui dieci anni dopo interpreta il ruolo, Colosio non rivendica, a differenza di chi lo ha preceduto, subitanei pentimenti dopo l'assassinio. Anzi è uno di quelli che dopo le sprangate a Sergio cominciarono a fare carriera nella rigida struttura gerarchica di Avanguardia Operaia: prese a lavorare al "Quotidiano dei lavoratori" e in commissione scuola, moltiplicò i suoi impegni.
    "Ero dappertutto, mi chiamavano prezzemolo": cosi diventa un "quadro intermedio" dell'organizzazione e collabora a preparare la rottura del coordinamento studenti che doveva portare per tappe successive alla nascita di Democrazia Proletaria. Sta trafficando attorno a questi problemi interni quando vede un insolito via vai nella sede di Via Vetere. Si parla di qualcosa che deve succedere all'Ortica. "Prezzemolo" non si fa pregare due volte: inforca la moto e parte. Poche ore dopo sarà davanti al bar Porto di Classe, "da spettatore" precisa, stupefatto non tanto della selvaggia irruzione nel locale, dell'incendio, del tumo, delle vittime innocenti la iate per terra, quanto dell'insolita alleanza tra Avanguardia Operaia e Comitati antifascisti (Cat) realizzata per l'occasione"
    Colosio osserva, si unisce al piccolo corteo che si allontana scandendo slogans antifascisti e se ne va. La sera fa una specie di "scenata di nervi" alla sua ragazza: non per i tre quasi in coma, ma per l'inopportunità del sodalizio AO-Caf, e l'imminenza delle elezioni. Sembra davvero strano che questo burocrate dell'estremismo, così compreso nel suo ruolo di tutore della "coerenza ideologica" del gruppo, che per sua ammissione parlò in più di una riunione dell'episodio, non riesca a ricordare che un solo volto tra le decine che vide nella riunione preliminare all'assalto, nella sede dell'Ortica. La faccia è quella di Marco Costa, uno degli esecutori materiali del delitto Ramelli. Nella stanza c'è anche un uomo più anziano, elegante. Colosio chiede chi è: "Ma come, gli rispondono, non conosci Tuminelli?".
    Tutto qui, il resto svanisce in una nebbia sfocata. il presidente Cusumano incalza inutilmente con le domande: Chi altro c'era? Possibile che di una operazione "tecnicamente" e politicamente così impegnativa non si fosse parlato prima? E le foto che vennero scattate davanti al bar nei giorni precedenti, e il furgone con targa tedesca da cui uscirono alcuni partecipanti? Colosio non sa, non ricorda. Scuote il capo anche quando si parla del lavoro di schedatura dei "nemici".
Il difensore di parte civile, avv. Ignazio La Russa, gli mostra una copia del manifesto affisso intorno a casa Ramelli, un paio di giorni prima del delitto: "Ricercato Luigi Ramelli" (il fratello della vittima), con una sommaria descrizione dei luoghi frequentati dal ragazzo. "Mai visto, non lo sapevo". Colosio non ha una gran memoria, e solo quando glielo dice il legale, "ricorda" che nella sede di AO in Via Vetere c'era una macchina eliografica del tipo di quella usata per stampare il manifesto.
    Stesso discorso sul tema delle responsabilità dell'agguato allo studente missino. L'imputato descrive la "compartimentazione" di Avanguardia Operaia, divisa tra una struttura centrale con competenza sulle linee politiche e sulle campagne di "antifascismo militante, ed una periferica che applica le direttive. Il gruppo di medicina rientra in quest'ultima componente: il capo è Roberto Grassi, ed è a lui che Colosio fa risalire la responsabilità di aver deciso l'"operazione Ramelli", tra molti "credo", "potrei pensare", "riterrei" che fanno sfumare in un grigio indistinto le dichiarazioni più impegnative.
    Giuseppe Ferrari Bravo, che ha completato la sua deposizione all'inizio dell'udienza di ieri, non è stato di maggiore aiuto sui punti cruciali dell'inchiesta. Bruno e barbuto come Colosio, vestito da ragazzo a posto come tutti, ha fatto un gran sforzo per dimostrare il suo sincero e travagliato pentimento dopo la morte dì Sergio (anzi "il fatto", come gli imputati lo chiamano con eufemistico distacco), parlando anche di un tentativo di suicidio dopo mesi di clausura in casa determinati tra l'altro da una delusione amorosa. Ma non sa spiegare come mai, oltre un anno dopo Ramelli, fu lui ad incaricarsi del "recupero di spranghe" in seguito all'assalto a Porto di Classe per portarle nell'abbaino di via Bligny, e perché dell'abbaino rimase l'intestatario anche dopo il suo preteso distacco dall'organizzazione, senza avere sospetti che il locale venisse usato per altri scopi al di là delle "evasioni sentimentali" di Costa, Colosio e le rispettive ragazze.
Ferrari si rammenta di essere il responsabile di via Bligny solo nel '79, leggendo della legge antiterrorista che impone un censimento dei contratti di affitto. Telefona a Costa, che nemmeno lo riconosce, e gli raccomanda di cambiare intestazione. Pensa che tutto sia a posto, e quando l'arrestano per Ramelli, parla diffusamente dell'agguato di Porto di Classe, ma non dice una parola della soffitta. Forse non se lo ricordava, come adesso non ricorda chi diede l'ordine di aggredire Sergio, chi fece girare la foto, chi distribuì le chiavi inglesi, se c'era o no Belpiede ("penso di si ma solo perché dopo ne parlammo a lungo"), chi lo scelse come esecutore materiale, a chi rispondesse politicamente il gruppo di medicina al di fuori dell'università, in che sede sia stata decisa l'azione.
    Di una cosa sola il dottor Ferrari Bravo è sicuro, in contraddizione con l'ex-compagno Colosio: l'aggressione non poteva essere stata stabilita in facoltà. Tutti gli episodi di questo genere erano determinati "dall'alto". Da dove? Da chi?         "Non so, i rapporti con le istanze superiori li teneva Costa".
    L'udienza di ieri, che è stata seguita dal vicesegretario nazionale del Msi-Dn. on. Franco Servello e dall'on. Tommaso Staiti di Cuddia, ha arricchito anche il capitolo dei "come eravamo" aggiungendo nuovi particolari alla descrizione dei percorsi personali dei protagonisti.

    Particolari curiosi come quello del Colosio Claudio che ha difficoltà a farsi accettare da AO perché a scuola "parlava con una ragazza di destra", ed era considerato qualunquista. Particolari rivelatori delle personalità, come il racconto di Ferrari Bravo sul suo esordio nell'organizzazione, come una scheda di iscrizione dove si chiede tra l'altro se l'aspirante militante "conosce dei fascisti".
    Ferrari Bravo non ne conosce nessuno e scrive il nome di un ex-compagno di scuola. Se lo ricorda solo vagamente come simpatizzante di destra, ha letto le sue generalità su un ta-tze-bao all'Università, ma ci tiene a dare il suo contributo. Chissà poi che gli sarà successo?

Flavia Perina

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