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Archivio Ramelli - articoli di giornale L'Unità, 17/3/1987 Quanta voglia di rimuovere... |
In fila per essere pubblico al
processo Ramelli: sono
le 9 e al Palazzo di Giustizia c'è poca gente, praticamente
la stessa
di tutti i giorni. Al primo piano davanti alla seconda sessione di
Corte
d'Assise, nel lugubre androne. la gente e più folta. Saranno
cinquanta.
Ci sono i giornalisti, la televisione e gli avvocati con la toga sotto
il braccio. E un chiacchiericcio dimesso, un'atmosfera da Palazzo di
Giustizia.
I carabinieri hanno transennato l'ingresso dell'aula, registrano nomi e
documenti, aprono borse e passano il metal detector lungo i corpi.
Tutti
parlano di qualcos'altro.
Ore 10: c'e
sempre la televisione
e l'inquadratura è sempre la stessa. Tra i quotidiani che
circolano
il Corriere è al primo posto, segue Tango con
l'Unità e qualche
Gazzetta dello sport. È lunedì. Dei processo non
parla nessuno.
Arriva un ragazzo e dice: "Son passato da via Mancini, una marea,
saranno
diecimila...". Non gli risponde nessuno. La maggioranza è
composta
di donne. Sono arrivate altre persone: a contarle non saranno cento.
Ci sono
anche alcuni parlamentari
e dirigenti di Democrazia proletaria. Fanno gruppo a parte. Viene
distribuito,
non a tutti, un comunicato stampa del Comitato 10 anni dopo: vi si
chiede
che questo processo non sia un processo alla storia, criticano i
giudici
istruttori Salvini e Grigo per il tentativo di "costruire un maxi
processo
ad una fantomatica banda armata terroristica", invitano la stampa a non
esagerare e non cercare "in questa inchiesta la possibilità
di ripulire
la coscienza sociale della nostra città dal ricordo di
quegli anni
dove si respirava aria di rivoluzione". Si legge una disperata ansia di
prendere le distanze e di dimenticare: "Ora il processo è
finalmente
iniziato e di fronte alla giustizia ci sono solo gli imputati con la
loro
storia personale, con la loro vita attuale e il loro futuro". I
comunicati
spariscono nelle tasche e nelle borse. E tutti riprendono a discorrere
dì tutto. Son facce di anni lontani e non parlano di
ricordi, non
vogliono ricordare. La rimozione è collettiva.
Ore 10.30.
C'è sempre la fila,
c'è sempre la televisione. Quando è il mio turno
il carabiniere
chiude la transenna: non c'è più posto. Sono
passati in 45.
Capanna non c'è. Mi dirigo alla porticina laterale dove
entrano
avvocati e giornalisti e finalmente alle 11.45 sono in aula. Si dice
che
il processo sarà rinviato. L'aula è piccolissima
e piena.
Alcuni giornalisti si sono infilati garruli nella gabbia riservata agli
imputati. Gli avvocati siedono sui loro scranni e gli imputati sono
seduti
su una panca in fondo. Incrocio lo sguardo della mamma di Sergio
Ramelli,
ha gli occhi arrossati, mi fissa a lungo per vedere se mi conosce: si
mette
a posto gli occhiali e la sciarpa azzurra che infila nella pelliccia
marrone.
Ferrari
Bravo nasconde il volto fra
le mani. Giovanni Di Domenico non vuole primi piani: ". È il
vostro
lavoro, ma ormai ci avete fatto mille foto. Per favore, non si
può
smettere? Almeno i primi piani non fateli...". Si copre il volto con
una
mano, poi la toglie e si siede sulla panca. I fotografi sparano mille
clic.
E continuano imperterriti.
Avvocati e
giornalisti chiacchierano,
i fotografi fotografano. Gli imputati stanno seduti sulla panca e non
parlano.
Ore 11.10 entra il presidente della Corte e entra il pubblico. Alle
spalle
della Corte un truculento ed enorme bassorilievo: è un
terribile
angelo vendicatore che tiene lo spadone sguainato e puntato sul corpo
riverso
di un uomo. Un imputato fissa il bassorilievo. Al posto di quella spada
potrebbe esserci una chiave inglese.
Il
Presidente chiama i testi. Quindi
scusandosi annuncia che farà l'appello dei 25 imputati. Li
chiama
uno per uno e loro rispondono declinando anche il nome degli avvocati
difensori.
Siamo tutti in piedi. E gli imputati ci guardano per capire chi siamo e
io li guardo cercando di indovinare come erano dodici anni fa, quando
c'era
un corteo alla settimana, la chiave inglese non era solo uno strumento
di lavoro, quando usarla contro gli avversari era considerato un atto
politico
e comunque un gioco impunito. La madre di Sergio Ramelli guarda fisso
il
giudice e non si volta. Il tono della voci degli imputati è
dimesso
e i volti in quell'aula piena si assomigliano tutti. Fuori la rimozione
continua ma il processo per l'omicidio di Sergio Ramelli, un giovane
neofascista
ucciso a sprangate dodici anni fa, è iniziato.
Silvio Trevisani
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