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L'Unità, 28/3/1987

"Ricordo Ramelli che urlava no, no..."

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Drammatico interrogatorio di Giuseppe Ferrari Bravo al processo per la morte del missino
Ricordo Ramelli che urlava no, no...

Milano - Al processo Ramelli è il turno di Giuseppe Ferrari Bravo, 'Aldo' per familiari e amici. E quello cui toccò, con Marco Costa, il compito di colpire con le spranghe il giovane missino "per dare un avvertimento ai fascisti della zona". A sentirlo parlare, con quella voce incrinata, sempre sul punto di spezzarsi in un singhiozzo, sembra un ragazzo un po' smarrito, che racconti fatti di ieri. Quel 13 marzo '75 sfiorava i 28 anni ed era iscritto al quarto anno di medicina.
"Di quegli anni, dice ora, non intende parlare: lo ha già fatto Costa in modo esauriente. Mi limiterò a parlare della mia storia personale, a raccontare come ho fatto a essere coinvolto in fatti così drammatici". Anche lui, come Costa, è di formazione cattolica integralista, e proprio in ambito cattolico visse le sue prime esperienze di impegno civile. La politica doveva essere il modo per superare il solidarismo episodico, per "affrontare i nodi". Ed eccolo militare nel Club (Comitato unitario di base) di medicina, e poi, nel gennaio '75, entrare nelle fila di Avanguardia operaia. "Avevo passato le vacanze di Natale ad Alba, eravamo tutti insieme, mi aveva colpito quell'atmosfera di amicizia e solidarietà. La cosa terribile è proprio questa, che ora, che sono passato da una militanza allegra e piena di vita a un fatto così grave. La mia sensazione, dopo l'episodio Ramelli, è stata proprio quella dl essermi bruciato nel giro dl pochi giorni".
Ed eccolo, l'episodio Ramelli. "Quando venne fatto il mio nome (per il pestaggio, ndr) fui preso dal panico. Ma il mio stato d'animo emotivo e insicuro e l'impegno preso nei confronti dei compagni e dell'ideologia, mi impedirono di tirarmi indietro. Eppure io sono sempre stato una persona mite. Ma tanto ora, aggiunge mezza voce, non cambia niente". Il suo ricordo di quell'"avvertimento" finito in omicidio è frammentario. "Mi ricordo quelle grida di Ramelli che diceva no, no. Qualcosa così... Ho perso da di Ramelli l'equilibrio inciampando nel motorino... Personalmente credo di averlo colpito una volta, al massimo due...". E poi, quando Marco dice 'basta, andiamo', e si ferma un momento ad aspettarlo, attraversa la strada in fretta, con la sensazione di essere in ritardo. Anche per lui, segue un periodo dl crisi: lo choc di quell'omicidio " e poi in quel periodo ebbi un distacco sentimentale, mi andò male anche un esame, per la prima volta". Ci vogliono mesi perché si riprenda. Tra i confusi ricordi di quel fatto-choc, c'è quello di Gianmaria Costantini. Già giovedì Costa aveva buttato là quel nome: al momento della ritirata aveva notato Costantini che correva, anche lui con una chiave inglese in mano. Anzi, aveva visto che c'era una macchiolina di sangue su quella chiave inglese. Ieri, la figura di Costantini è riaffiorata anche dai ricordi di Ferrari Bravo. "Non so con precisione quale dovesse essere la sua posizione, ma ho avuto l'impressione che fosse fuori posto". Questo Costantini nel processo non compare perché è morto in un incidente stradale qualche tempo fa. Chi può dire, ora, che i colpi mortali non siano stati vibrati proprio da lui, quello "gasato", che si era addirittura offerto volontario ed era stato escluso proprio perché non dava le necessarie garanzie di senso della misura?
"Non uscii di casa per un mese e mezzo, continua Ferrari Bravo, poi pian piano mi ripresi, ma limitai la mia attività politica e mi buttai nello studio per superare la crisi". E anche lui, come Costa, se forse non ci riuscì nel suo intimo, ci riuscì certamente nei fatti. Mentre infatti una mezza dozzina dei giovani del servizio c'ordine, scossi dalla non voluta e non prevista tragedia Ramelli, si allontanavano dalla squadra, Ferrari Bravo, come Costa, si ritroverà giusto un anno dopo quella terribile esperienza a partecipare alla spedizione punitiva al bar Porto di Classe. Se ne parlerà alla ripresa del processo, lunedì.
Paola Boccardo
 
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