Nella altre pagine abbiamo visto che il
fenomeno della morte della donna all'interno del
rapporto di coppia non è un fenomeno marginale o
occasionale, ma sembra piuttosto stabilmente
radicato su una serie di posizioni culturali
(pregiudizi) che sono più o meno diffusi nella
nostra società. Il problema quindi è culturale e
deve essere affrontato con strumenti
culturali.
Come dobbiamo qualificare la cultura nella quale
si collocano questi pregiudizi? In quanto segue
noi chiameremo questa cultura - che è poi la
nostra cultura - "maschile". Il fenomeno della
morte della donna nel rapporto di coppia non
manifesta altro che un aspetto di questa
millenaria prevalenza della cultura maschile.
Questa cultura la chiamiamo “maschile” perché è
stata sviluppata lungo secoli e secoli in cui
gli unici a possedere il diritto di parola erano
i maschi, ma spesso la ritroviamo anche nelle
donne: la ritroviamo in effetti in tutti gli
esseri umani che fanno parte di questo nostro
mondo.
Parlare di “cultura maschile” potrà, a taluno,
apparire fazioso; forse qualcuno vorrà
esclamare:
“…che cultura maschile e cultura
maschile…! La cultura è patrimonio comune
dell’umanità e non ha necessariamente un sesso…
"
In una prospettiva del genere il parlare di
una “cultura femminile negata” o di un
“predominio della cultura maschile” potrebbe
sembrare una forma stantia di veterofemminismo,
tutta intesa a contrapporre, a dividere il mondo
in due categorie incomunicabili, maschile e
femminile.
Il modo con cui noi parliamo di “cultura
femminile negata” e di “predominio della cultura
maschile” non ha niente di ideologico o di
sessista. E’ la descrizione di un dato di fatto.
Al contrario a noi pare che un atteggiamento
sessista e discriminatorio sussista in coloro
che negano questo dato di fatto cioè in coloro
che negano che si possa parlare di una cultura
femminile negata.
In primo luogo specifichiamo meglio cosa
intendiamo, in questo contesto, per cultura. Non
intendiamo la cultura intesa come precetti
generali o modi di vivere. E nemmeno la cultura
in una accezione generale che ingloba anche le
arti letterarie e figurative;intendiamo qui, con “cultura” le
principali categorie del pensiero: la morale, la
teoretica, l’estetica e la politica: intendiamo
le discipline che cercano di rispondere a
domande come: cosa è giusto, cosa è ingiusto?
Cos’è la realtà? Come è fatta? Come la possiamo
conoscere? Cos’è la bellezza? Quali sono le
regole della convivenza civile? In due parole
intendiamo essenzialmente la ricerca in campo
filosofico e scientifico.
Per convincere il lettore che abbiamo ragione
iniziamo con una lista di nomi: Talete,
Anassimene, Anassimandro, Parmenide, Eraclito,
Pitagora, Gorgia, Protagora, Socrate, Platone,
Aristotele, Euclide, Epicuro, Plotino, Seneca,
Marco Aurelio, Sant’Agostino, Boezio, San
Tommano, Avicenna, Fibonacci, Erasmo da
Rotterdam, Spinoza, Galileo, Newton, Cartesio,
Leibnitz, Hume, Kant, Ficht,Faraday,Shelling, Maxwell, Hegel, Marx, Nietzche,
Bohr, Einstein, Russel, Carnap, Heidegger,
Popper, Lakatos… abbiamo dimenticato qualcuno?
Certo che sì… ma di una cosa possiamo essere
sicuri: non abbiamo dimenticato nessuna donna.
Tra gli esseri umani che hanno definito la
tradizione del pensiero occidentale non c’è
nemmeno una donna. [Senza voler dare giudizi di
valore non si può paragonare Ipazia a Euclide o
Rosa Luxenburg a Marx].
La cosa potrà apparire a qualcuno irrilevante.
Ma chi saquanto potere vi sia dietro il pensiero,
dietro il concetto di scuola di pensiero non
potrà a questo punto far finta di niente. E
dovrà ammettere che esiste un predominio
culturale maschile. Più precisamente dovrà
ammettere che la nostra tradizione intellettuale
è stata integralmente opera di uomini ed è
quindi lecito parlare di “cultura femminile
negata”.
Ci sono
obiezioni possibili? Certo che sì. In primo
luogo esiste una obiezione che chiameremo
l’obiezione del “maschilista esplicito”che suona più o meno così:
“Se le donne non sono in quella lista è
perché in effetti le donne non avevano niente da
dire. Ciò che la lista dimostra è che le donne
non sono capaci di uno sforzo intellettuale
indipendente e originale”.
Posta in questi
termini l’obiezioni è talmente ottusa da non
meritare nemmeno una risposta: più che una
obiezione pare un insulto e niente di più. Il
maschilista esplicito confonde il fatto con il
valore: è noto infatti che alla donna, in gran
parte della storia occidentale erano interdetti
gli studi superiori ed è evidentemente scorretto
confondere un limite oggettivo, fattuale,
fondato su determinate condizioni storiche, con
un limite delle potenzialità della donna.
Essendo
evidentemente banale argomentare contro una
simile obiezione sforziamoci di inventare
qualche argomento a suo sostegno, che vada oltre
il mero insulto. Il maschilista esplicita
potrebbe, tanto per cominciare, suggerirci di
dimenticare, per un istante, le differenza di
genere e concentrarci su quelle sociali. Ci vuol
poco a prendere atto che quella lista è fatta in
gran parte di uomini nobili, o ricchi: da
Platone aBoezio fino a Russel troviamo persone
benestanti. Non troviamo poveri o quasi. Questo
vuol forse dire che i poveri sono incapaci di
uno sforzo intellettuale? No; certo, le
condizioni economiche impedivano spesso ai
poveri di esercitare la ricerca speculativa
però, a ben guardare ci sono delle eccezioni:
Kant era figlio di un ciabattino, Faraday da
giovane faceva il rilegatore …Ecco insomma che
anche i poveri nel 700 e nell’800 riuscivano a
dare un loro contributo, talvolta cruciale al
pensiero: la povertà era un ostacolo, ma non
insuperabile. Perché questo non vale anche per
la condizione femminile? Non vi è qui
un’assimetria che sembra portare buona conferma
al fatto che la donna è incapace di produrre una
forma di pensiero veramente indipendente e
creativa?
Rinforzata a questo modo l’obiezione
sembra assumere maggiore rispettabilità.
Tuttavia il parallelo e l’asimmetria con le
differenze sociale è capzioso e illusorio.
Difatti il figlio di un ciabattino poteva ben
divenire un “clerk”, anche in epoche in cui le
differenze di classe erano cruciali, ma in
quanto tale smetteva di far parte della
categoria dei ciabattini. Vale la pena di
osservare invece che una donna non poteva
cessare di essere donna. Per essere più chiari
l’asimmetria avrebbe –forse - un qualche tipo di
valore se si potesse mostrare che fanno parte
della lista dei ciabattini e dei rilegatori: se
Kant avesse fatto, come suo padre, il ciabattino
e se la nostra storia annoverasse, tra i massimi
pensatori della nostra storia un ciabattino
l’asimmetria esisterebbe. Ma Kant non era un
ciabattino. Era il figlio di un ciabattino
divenuto professore. E allo stesso modo Faraday
non era un rilegatore: era un ex rilegatore
divenuto professore. Ecco insomma che la nostra
tradizione culturale ha sempre ammesso dei
percorsi sociali che consentivano a persone
particolarmente dotate di farsi avanti nel mondo
della ricerca: tuttavia in questo stesso
passaggio essi perdevano l’appartenenza alla
loro stessa classe sociale e divenivano qualcosa
di diverso. Lo status di donna non è invecequalcosa che si acquista o si perde con il tempo e questo
rende del tutto insensata l’obiezione del
"maschilista esplicito".
Vi è tuttavia un’altra obiezione
possibile: si potrebbe concedere che in effetti
le donne sono sempre state interdette allo
studio e all’esercizio della libera ricerca e
che questo spieghi a sufficienza il perché le
donne non sono presenti in questa nostra lista.
Tuttavia si potrebbe aggiungere che questo non
consente di parlare di “predominio della cultura
maschile” o di “cultura femminile negata”.
“Come si può” potrebbe osservare
qualcuno “ridurre Platone al suo sesso? Far
fare la stessa fine a Galileo, a Newton…? Essi
sono i maestri del pensiero occidentale e il
loro pensiero è talmente grande da prescindere e
sublimare la condizione sessuale”.
Chiamiamo questa
obiezione – che molti troveranno condivisibile -
l’”obiezione del maschilista mascherato”. Egli è
disposto a concedere che le donne sono state in
passato discriminate; ma nega tuttavia che esse
siano depositarie di un propria specificità
culturale.
Questa obiezione
va considerata con una certa cautela: è in parte
condivisibile l’idea che il pensiero di questi
uomini non può essere interamente collassato
sulla loro condizione sessuale: sarebbe folle e
ingeneroso davvero. Tuttavia l’obiezione è
impregnata di una retorica culturale che non
regge alla prova dei fatti. Essa presuppone che
alcuni uomini, nel corso dei secoli siano
riusciti a comprendere così bene le donne che
sono stati capaci di condensare, nel pensiero
occidentale, anche il punto di vista delle
donne:
e questa è un’affermazione totalmente
risibile. Peraltro, al
di là della suo carattere apparentemente neutro
sottintende un pregiudizio impressionante: il
mondo non ha bisogno delle donne, nel senso che
gli uomini hanno parlato e possono continuare a
parlare anche per loro.
Saremo disposti
ad ammettere che certi aspetti culturali
femminini possano pur essere presenti in alcuni
pensatori della cultura occidentale, certo. Ma
non dovremmo certo essere disposti a dichiarare
che il mondo femminile sia rappresentato nella
nostra tradizione culturale. Ecco quindi che
dobbiamo ammettere che la nostra storia è una
storia solo a metà: una buona metà dell’umanità
non ha potuto in realtà parlare, non ha potuto
sviluppare le sue proprie forme di ragionamento
i suoi propri schemi morali. Questo è il
silenzio della cultura femminile. Non è
ideologia, è un dato di fatto.
2. Il silenzio della cultura femminile e il
terzo pregiudizio
Questo è dunque
il punto di partenza per comprendere il fenomeno
della morte della donna nel rapporto di coppia.
Esso si colloca in un contesto culturale in cui
la voce della donna non si è mai sentita, al
punto che è lecito parlare di un silenzio della
cultura femminile. E’ peraltro vero che
l’emancipazione femminile, negli ultimi anni, ha
cambiato parzialmente le cose: oggi vediamo
donne attive in professioni da cui fino a pochi
anni fa erano escluse. Ma il contesto di
cognizioni e valori in cui queste stesse donne
operano è stato costruito su secoli e secoli di
giudizi e pregiudizi fondati sulla cultura
maschile e questo limita fortemente le
possibilità delle donne; così
l'emancipazione femminile ha lavorato, come poteva, sul piano concreto,
dei diritti positivi. Non ha potuto lavorare che
in minima parte, per ora, sul piano culturale
sul piano cioè dei concetti e delle forme di
pensiero. E per altro se oggi vediamo
donne attive nella società civile come
imprenditrici, professioniste è altrettanto vero
che le donne continuano ad essere escluse in
modo quasi programmatico dalle massime cariche
nella politica e da quegli ambiti di ricerca
accademici che hanno una maggiore ricaduta nel
nostro modo di pensare (filosofia, matematica e
fisica).
In alcuni di questi campi, come la matematica, l'esclusione viene quasi
legittimata da prassi e posizioni ufficiali che
esplicitano senza reticenze la discriminazione.
Insomma, bando ad ogni ottimismo: viviamo in un mondo a metà, in cui solo
una parte dell’umanità è veramente libera di dar
voce alle proprie esigenze e alle proprie
aspirazioni: abbiamo letto Platone, Aristotele,
Plotino, Sant’Agostino, l’Aquinate, l’Alighieri,
Cartesio, Newton, Hume, Kant, Ficht, Hegel… e
abbiamo pensato che il loro pensiero fosse il
pensiero dell’Umanità; in realtà si trattava
solo di una metà dell’umanità, la metà maschile;
quella femminile è stata per secoli ridotta al
silenzio.
E' peraltro vero
che si devono fare dei distinguo: se è un dato
di fatto il predominio della cultura maschile
con questo non si vuole negare che alcuni uomini
abbiano potuto produrre modi di pensare e di
vedere che non sono tipicamente maschili. Ci
sono state, in passato, forme di pensiero in cui
emergevano atteggiamenti e modi di pensare
genuinamente femmini: un esempio tipico è
l'opera dell'Aquinate. Ricercare, nella nostra
cultura atteggiamenti e modi di vedere la realtà
maschili o femminili è un'impresa decisamente
ardua e nient'affatto immune da rischi. Se
davvero vogliamo intraprendere questa perigliosa
strada dobbiamo essere disposti a liberarci di
alcuni pregiudizi storici e particolarmente
dall'idea ingenua e un po' volgare che gli
ultimi duecento anni siano stati il tempo di
ogni progresso e di ogni umano miglioramento.
Ad esempio, è
diffusa l'idea che l'emancipazione femminile sia
stata affare degli ultimi due secoli: l'800 e il
'900 ci vengono spesso presentati come i secoli
in cui la donna fa la propria comparsa come
protagonista indipendente e come vera e propria
artefice della propria vita. Se tuttavia si
passa dal piano dei diritti attivi al
piano culturale è abbastanza difficile
condividere tout court questo modo di vedere le
cose. Nell'epoca moderna le prime donne attive
sul piano culturale e nel mondo accademico sono
state prodotte dal '600; nel '700 il processo è
continuato, accentuandosi; ma si è venuto ad
arenare proprio all'inizio dell'800 per poi
riprendere alla fine dello stesso secolo. La
storia è un po' meno lineare di quanto
supponiamo. In questa fase di interruzione
dell'emancipazione femminile si colloca uno tra
i fenomeni più rivoluzionari degli ultimi secoli: il romanticismo. Se mai l'umanità ha prodotto
una forma di pensiero e di visione della realtà
tipicamente maschile e antifemminile, questa è
il romanticismo. Mai una donna avrebbe potuto
concepire il trascendentale romantico, mai una
donna avrebbe potuto concepire la dialettica
Hegeliana: lo stesso linguaggio della scienza,
dell'epistemologia, della politica finisce, in
quell'epoca, per infarcirsi di metafore sessuali
maschili, per cui si dice che la scienza
"penetra la realtà" (Tommaso d'Aquino sarebbe
inorridito) e che l'espansione coloniale serve a
"penetrare le culture inferiori" e a
"disseminarle di civiltà". La situazione è resa
particolarmente sgradevole dal fatto che,
come è noto, il romanticismo non è una corrente
di pensiero definitivamente superata:
il terzo pregiudizio su cui si fonda in modo
cruciale il fenomeno della morte della donna è
un pregiudizio tipicamente romantico.
Ecco dunque che
questi nostri anni ci pongono di fronte a
fenomeni davvero contrastanti: da un lato
l'indubbio avanzamento della donna nella
società, dall'altro il permanere, nella cultura,
di pregiudizi e modi di vedere esclusivamente
maschili, che minacciano la vita della donna e
non di rado costituiscono degli ostacoli
insormontabili alla libera manifestazione ed
espressione del proprio pensiero . E' dunque sul
piano culturale che si deve operare.