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La Flautista e Diotima   Barbara de Pace e Carolina Gentili

Rielaborazione drammatica di Carolina Gentili ispirata a "Diotima e la suonatrice di Flauto" di Ida Travi. 

Con Barbara de Pace

 

 

Note di regia | materiale multimediale

Il  testo pone al centro due personaggi “sfiorati” dal Simposio di Platone: la flautista, che viene invitata ad uscire quando gli uomini iniziano a discorrere di Eros e Diotima di Mantinea; Diotima viene evocata nel discorso di Socrate nel Simposio di Platone come sacerdotessa, maestra dello stesso Socrate che Platone utilizza come una ulteriore maschera attraverso la quale esporre il suo pensiero sull'amore. Di fatto Diotima resta una figura emblematica del silenzio della cultura femminile. Si tratta di una riflessione sul silenzio secolare della cultura femminile; un testo aperto alla speranza di una cultura più ricca e concreta.

Il testo è stato rielaborato con l'intenzione di mettere in rilievo queste due figure tralasciando la struttura della tragedia classica come nell'originale atto tragico di Ida Travi e cercando di evidenziare maggiormente i caratteri di due donne estremamente diverse e tuttavia, alla fine, accomunate da un destino ugualmente tragico; una è la suonatrice di flauto che di fatto rappresenta la donna già morta perché costretta a una vita di silenzio, di inconsapevolezza di sé e senza la possibilità di esprimere il proprio amore; Diotima rappresenta invece il distacco e la consapevolezza, una figura ironica e fredda che vuole parlare finalmente con una donna dell'amore in termini più approfonditi mettendo in luce aspetti  non considerati  dagli uomini dell'epoca classica: la donna come corpo e mente, nutrimento del corpo e della mente, emblema di quella cura di quanti son nati che diventa scienza femminile.  Solo alla fine la figura di Diotima si umanizza mostrando le sue fragilità, la sua sconfitta nel non esser riuscita a salvare la suonatrice nonostante il tentativo di riportarla alla coscienza. Soprattutto mostrerà la volontà di ampliare il suo discorso sull'amore, dando a questo discorso una valenza diversa rispetto a quello che Platone scrive nel Simposio. Platone richiede che  "muovendo dalla povera bellezza dei corpi, si possa salir su su fino alla bellezza delle anime e poi su fino alla bellezza delle leggi e poi ancora su fino alla visione di una bellezza, ultima, assoluta"; viceversa qui la “povera bellezza dei corpi” diventa nutrimento trasparente, nutrimento di quanti son nati, diventa "la terra dalla cui ferita sgorgano in un continuo generare nuovi mondi ancora e ancora nuove terre e nuovi cieli", "un universo unico" la donna fatta di terra e cielo, corpo e anima.

Il finale quindi vuol consegnare al pubblico il riscatto della donna relegata alla sua antica assenza e ad una concezione disumanizzante e parziale del suo essere (le donne partoriscono col corpo e non con l'anima) ad una visione della donna come un mondo unico e inestinguibile, fatto di corpo e anima e dalla cui completezza nascono altri mondi

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