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La Flautista e Diotima Con Barbara de Pace
Note di regia | materiale multimediale
Il testo pone al centro due personaggi
“sfiorati” dal Simposio di Platone: la flautista, che viene
invitata ad uscire quando gli uomini iniziano a discorrere di
Eros e Diotima di Mantinea; Diotima viene evocata nel discorso
di Socrate nel Simposio di Platone come sacerdotessa, maestra
dello stesso Socrate che Platone utilizza come una ulteriore
maschera attraverso la quale esporre il suo pensiero sull'amore.
Di fatto Diotima resta una figura emblematica del silenzio della
cultura femminile. Si tratta di una riflessione sul silenzio
secolare della cultura femminile; un testo aperto alla speranza
di una cultura più ricca e concreta.
Il testo è stato rielaborato con l'intenzione di
mettere in rilievo queste due figure tralasciando la struttura della
tragedia classica come nell'originale atto tragico di Ida Travi e
cercando di evidenziare maggiormente i caratteri di due donne
estremamente diverse e tuttavia, alla fine, accomunate da un destino
ugualmente tragico; una è la suonatrice di flauto che di fatto
rappresenta la donna già morta perché costretta a una vita di
silenzio, di inconsapevolezza di sé e senza la possibilità di
esprimere il proprio amore; Diotima rappresenta invece il distacco e
la consapevolezza, una figura ironica e fredda che vuole parlare
finalmente con una donna dell'amore in termini più approfonditi
mettendo in luce aspetti non considerati
dagli uomini dell'epoca classica: la donna come corpo e
mente, nutrimento del corpo e della mente, emblema di quella cura di
quanti son nati che diventa scienza femminile.
Solo alla fine la figura di Diotima si umanizza mostrando le
sue fragilità, la sua sconfitta nel non esser riuscita a salvare la
suonatrice nonostante il tentativo di riportarla alla coscienza.
Soprattutto mostrerà la volontà di ampliare il suo discorso
sull'amore, dando a questo discorso una valenza diversa rispetto a
quello che Platone scrive nel Simposio. Platone richiede che
"muovendo dalla povera bellezza dei corpi, si possa salir su
su fino alla bellezza delle anime e poi su fino alla bellezza delle
leggi e poi ancora su fino alla visione di una bellezza, ultima,
assoluta"; viceversa qui la “povera bellezza dei corpi” diventa
nutrimento trasparente, nutrimento di quanti son nati, diventa "la
terra dalla cui ferita sgorgano in un continuo generare nuovi mondi
ancora e ancora nuove terre e nuovi cieli", "un universo unico" la
donna fatta di terra e cielo, corpo e anima.
Il finale quindi vuol consegnare al
pubblico il riscatto della donna relegata alla sua antica
assenza e ad una concezione disumanizzante e parziale del suo
essere (le donne partoriscono col corpo e non con l'anima) ad
una visione della donna come un mondo unico e inestinguibile,
fatto di corpo e anima e dalla cui completezza nascono altri
mondi
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